Dire quasi la stessa cosa *
di Gentiana Minga
Solo pochi giorni fa ho scoperto in italiano il sostantivo maschile “afflato”. Questo mentre cercavo la parola che più avrebbe rappresentato quella strana sensazione che avevo provato intorno agli undici anni quando piegata sul letto divoravo l’ennesimo romanzo di avventure. Era un libro grosso, con delle pagine ingiallite: alcune di queste pagine all’inizio di ciascun capitolo avevano piccole figure, una volta di colori vivaci, dei protagonisti. Credo che sia stata un opera di Emil Zola, oppure di Roman Rolland, ma non sono tanto sicura visto che non mi viene in mente il titolo. Narrava le vicende di una bambina orfana, una contadina nella Francia del 1800, che avendo saputo che la sua vera madre era ancora viva, aveva deciso di andare a trovarla con ogni mezzo. A piedi aveva attraversato confini, si era avventurata per campi, paesini e boschi, si era fermata a dormire di notte dove le capitava. Ricordo che, mentre leggevo di come la bambina svegliandosi una di queste mattine vicino ad un pollaio avesse improvvisato la colazione raccogliendo da terra un pezzo di pane raffermo che poi aveva spalmato con il tuorlo di un uovo fresco, d’un colpo mi prese la fame. Era una fame indotta. Così avevo lasciato il libro sul letto ed ero andata in cucina in cerca di un pezzo di pane raffermo da spalmare con il tuorlo di un uovo fresco. Quello fu il momento in cui spinta non so da quale forza esterna, decisi di scrivere. In albanese lo si può dire “frymëzim” sostantivo maschile, equivalente a “ispirazione“ da frymë - soffio - respiro, spirito. Nel mio caso non si trattava dello “spirito respirato”, bensì di un qualche cosa che da fuori mi dava delle piccole spinte, come per scuotermi, così da svegliare in me una macchina già pronta all’uso. Afflato è l’unica parola che in entrambe le lingue esprime meglio quella piccola frazione di secondo che cambiò la mia vita. Da scrittrice straniera la parola afflato mi si è adattata anche senza saperne il significato, giacché, solo pronunciandola, come per magia, è apparsa dinanzi a me sospesa per aria, quasi una nuvola e quasi una libellula, quasi una fata e quasi un flauto.
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Ciao mamma un saluto da Bolzano doveva essere, all’inizio, la traduzione dall’albanese in italiano del “ Zonja e Shkodres” (Signora di Scutari), il recente libro pubblicato in Albania nel 2003, dieci anni dopo la raccolta di novelle e racconti l’Autopsia del disastro (1993). Tra le due opere c’è un profondo divario. Erano scritte in contesti completamente differenti. La prima, raccontava il disagio della generazione del ‘71, spalancata tra due regimi, mentre il secondo, segnava l’inizio della mia resistenza all’emigrazione. Inconsciamente, trovandomi straniera in un contesto nuovo, mi ero resa conto del rischio di perdere d’un colpo il passato e il futuro. Quale sarebbe stata la mia strada di scrittrice se in primo luogo, non conoscevo bene la lingua nuova mentre stavo per perdere quella materna? Chi ero io in Italia, svestita dal passato per indossare la divisa nuova dell’identità emergente, impostata da regole esterne che sbatacchiavano, rischiando di rompere il vaso di porcellana che portavo dentro?
Nella mia valigia del primo viaggio tenevo tutti i libri che mi sarebbero serviti come un vaccino contro la dimenticanza. Vi erano opere dei nostri scrittori più stimati, volumi di autori tradotti dal francese e dall’italiano, antologie di poesia greca e giapponese. Quando scesi dalla nave tirandomi dietro quell’umile e pesante bagaglio, non sapevo quanto fosse difficile fare ed essere tante cose contemporaneamente. Svolgere qualsiasi lavoro ti capitasse senza dimenticare di essere stata una insegnante, una scrittrice, una figlia, una cittadina del mare, un’albanese. Infatti, non ho potuto fare tutto ciò senza perdere dei pezzi. Né ho potuto imparare perfettamente l’italiano, né ho potuto conservare intatta la mia lingua d’origine. A tratti e per ragioni del tutto casuali ho perso dove ambivo vincere e ho vinto dove non avevo mai sperato di vincere. L’emigrazione mi ha costretta a munirmi della lingua italiana secondo come mi veniva proposta. Al lavoro, tra gli operai, tra altri stranieri, in condizioni disagiate ho raccolto le parole semplici, pure, nuove per poter ripartire da capo. All‘inizio avevo cominciato a tradurre “Zonja e Shkodres” ma poi ho lasciato perdere per scrivere direttamente in italiano “Ciao Mamma un saluto da Bolzano”. Questa silloge è nata a Bolzano, era stato un “afflato” bolzanino quello che mi aveva toccato. Così facendo ho ripreso il mio cammino, quello che era iniziato quando mi ero immedesimata nelle vicissitudini della bambina francese in cerca di sua madre. Può darsi che il destino degli scrittori, sia un po‘ come quello della bambina contadina. Si va in cerca di altre vite, calpestando terre nuove, oltrepassando confini, raccogliendo faticosamente per strada parole e frasi per poter raccontare così quello che si è vissuto, immaginando il futuro. Dentro “Ciao mamma un saluto da Bolzano” è rimasto poco dalla “Zonja e Shkodres”. Solo qualche pezzo dedicato ai miei genitori e l‘ultima parte, quello dei miei nonni paterni, ex partigiani, ricordi che, nonostante il tempo, mi auguro di portare con me come le membra del corpo, le mani finché avrò le mani, i piedi finché avrò i piedi, il cuore finché avrò il cuore. Il resto verrà narrato con parole di fortuna, con espressioni di esperienze sfuggenti. Comunicherò e descriverò le mie storie girovagando tra due lingue come in un campo pieno di erba e fiori differenti, cercando di dire quasi la stessa cosa...
* Dire quasi la stessa cosa di Umberto Eco, saggi, 2003